Forum

Cartoline

Siti amici

Racconti di viaggio

Le nostre guide

News per i viaggiatori

Note legali

English version

 
 

Info

Consigli

Foto

Itinerari

Guest book

Mandaci una E-Mail

Schede

Link

 

Home

 

 

 

La Gazzetta del Sud Africa

Lunedì, 19 Giugno 2006

 

 

Storie di italiani

 

 

La lunga marcia di Salvatore Borsei nel 1930:

a piedi dalla Tunisia al Sud Africa in ventuno mesi

 

 

 

 

L’emigrazione al principio del ventesimo secolo era molto diversa da com’è oggi. Secondo Pitagora “quando passi i confini della tua patria, non guardare mai indietro”. E sembrava essere un fatto naturale per la gente della regione Abruzzo fare esattamente così. Davano l’addio alle loro adorate montagne e non si voltavano più indietro. Mostrarsi sentimentali sarebbe stato come dare prova di carattere debole e questo non si concilia con lo stereotipo della gente d’Abruzzo.

Mio padre, Salvatore Borsei, perse suo padre nella costruzione della ferrovia transiberiana nel 1888. Parigi divenne la sua città quando i suoi zii lo accolsero in casa loro e lui per questo si considerava un figlio adottivo della Francia.

Sposò mia madre nel 1922. Il lavoro scarseggiava e quindi prese la decisione di cercarlo altrove. Al principio del 1924 lasciò l’Europa e partì per Buenos Aires, in Argentina, Sud America. Là lavorò per una ditta inglese che aveva vinto il contratto per la costruzione di una delle più pericolose ferrovie del mondo, che serpeggiava da La Paz, in Bolivia, a Lima, in Perù, fino a Bogotà. In certi punti la ferrovia saliva fino a 3000 metri. Si dovevano affrontare dirupi e si dovevano attraversare fiumi e i gradienti erano generalmente molto ripidi.

Nel 1930, dopo sette anni di questo arduo lavoro, si imbarcò su una nave a Caracas, in Venezuela, e ritornò in Italia, dove incontrò il suo primo figlio, mio fratello, che aveva ormai sette anni, per la prima volta.

Ma la polizia si mise a indagare sui sotterfugi con cui aveva evitato il servizio militare ed egli dovette scappare a Marsiglia, dove si imbarcò su una nave in partenza per la Tunisia. Di nuovo lasciava mia madre sola e incinta di me. Io nacqui il 23 marzo 1931, ma incontrai per la prima volta mio padre nel 1947, quando arrivai in Sud Africa, a Palmietfontein, vicino a Johannesburg.

Sulla nave mio padre divenne amico di un tunisino, al quale parlò del suo piano per raggiungere il Sud Africa. Mustafà aveva molte cose in comune con mio padre, dato che anche lui aveva vissuto abbastanza a lungo in Francia. Ospitato per alcuni mesi dal suo nuovo amico, mio padre attese di potersi unire a una carovana per attraversare il deserto del Sahara. Di tanto in tanto, attraversando la parte algerina del deserto, nel Tassili, gli capitava di incontrare fortini della Legione Straniera Francese, per cui, quando raggiunsero la regione montana dell’Ahaggar fu come arrivare in paradiso. Finalmente l’erba per i cammelli era abbondante e i beduini parlavano anche di fiumi sotterranei e di antiche pitture rupestri. Vi erano più vita, più acqua e più verde di quanto gli riuscisse di ricordare, il che gli faceva comprendere quanto fosse diventato come un isolano nel viaggiare per chilometri e chilometri fra le dune di sabbia. Questa regione con montagne alte quanto il Gran Sasso gli fecero anche sentire la nostalgia del suo amato Abruzzo.

Il viaggi proseguì e la routine più disgustosa ma necessaria era quella di dover bere dalle sacche di acqua fatte con gli stomaci delle capre. Il mattino presto, quando l’acqua era ancora fredda o bollita per fare il tè, era sopportabile, ma nel caldo asfissiante della giornata diventava disgustoso. Incontrarono numerose carovane lungo quella che veniva chiamata una strada, benché per lui dovesse restare un mistero come riuscissero a sapere dove stavano andando. Carcasse di cammelli morti e abbandonati nella sabbia gli ricordavano il famoso detto di Ungaro su come la morte tocchi la vita di ognuno.

Piano, da un’oasi all’altra, arrivarono fino a Bourem, che è il punto più a nord raggiungo dal fiume Niger nel Mali. La peculiarità del posto è che là dove arriva a toccare il 17.mo parallelo, si trova quasi esattamente sul meridiano di Greenwich. Più a sud, lungo il Niger, a Gao, la parte più faticosa dell’intero viaggio era finita. Sia gli uomini che i cammelli erano esausti. Il difficile tragitto da Tunisi a Gao aveva richiesto un periodo di quattro mesi. La carovana partì per il viaggio di ritorno e lui rimase là a compiere il proprio destino.

A piedi o in canoa riuscì a raggiungere Port Harcourt, nel delta del fiume Niger. Qui potè riposare in una stazione missionaria anglicana. A questo stadio della sua vita era ormai un provetto muratore e la sua voglia di essere utile in tutti i modi possibili era molto apprezzata dai missionari, non soltanto in questa missione, ma in tutte quelle che visitò nel corso del suo viaggio. Erano tutti più che felici che restasse per tutto il tempo che desiderava.

Mio padre sapeva che a Douala, in Cameroon, vivevano due suoi primi cugini, Quinto e Pio D’Amico e quindi aveva bisogno di essere in buona salute e in forze prima di partire per andarli a trovare. I fratelli D’Amico erano proprietari di una segheria nella giungla ed esportavano legname in Francia. La sua permanenza fra loro fu piacevole, ma ben presto decise di continuare il suo viaggio attraverso il Gabon e il Congo per raggiungere il fiume Congo. Da qui si diresse verso Leopoldville (Kinshasa), in Zaire. E questa parte del viaggio fu confortevole quanto la traversata del Sahara, ma per opposte ragioni. Il terreno era difficile e vi era fin troppa acqua a causare molte malattie e tante difficoltà.

Ci sono tanti santi, alcuni meritevoli di questo appellativo, altri no. Ma almeno i missionari in giro per l’Africa meritano un posto in paradiso, nel caso esista. Sono eroi sconosciuti capaci di altruismo nella forma più pura, senza vanità e senza egoismo.

Per raggiungere Kananga, a metà strada fra Leopoldville (Kinshasa) ed Elisabethville (Lumumbashi), fece uso soprattutto di canoe e scoprì che questo era un modo piacevole di viaggiare. L’acqua era pulita e rinfrescante, certamente molto diversa da quella nelle sacche di stomaco di capra nel deserto. Un incontro con una tribù indigena destò in lui una profonda impressione. Una grande folla aveva formato un cerchio intorno a un grande appezzamento di terreno e aveva appiccato il fuoco all’erba. Poi avanzavano lentamente verso il centro del circolo e tutto quello che trovavano già cotto dalle fiamme veniva mangiato : formiche, topi, serpenti, vermi, eccetera. Ma che ne sanno di bocconcini appetitosi i frequentatori di Maxim a Parigi?.... Queste erano vere delicatezze!....

La traversata da Lumumbashi, in Zaire, allo Zambia (Northern Rhodesia) non presentò alcun problema e ancora una volta trovò ospitalità in una missione anglicana a Mufulira, sulla Copperbelt (cintura del rame). E di nuovo pagò in natura per l’ospitalità, ma dopo alcuni giorni cadde ammalato e svenne. Aveva raccontato la sua odissea a uno dei missionari, il quale fu veramente addolorato nel vederlo morire dopo aver superato tante avversità. Il corpo fu coperto con un lenzuolo e sistemato su una barella. Fu scavata una tomba nel piccolo cimitero della missione e mentre il “corpo” sulla barella veniva trasportato alla sua estrema dimora, il missionario che lo accompagnava recitava le ultime preghiere. Il movimento ondulatorio fece uscire un braccio dalla barella e il missionario si chinò per rimetterlo a posto. Nel toccarlo gli sembrò di percepire un battito cardiaco e così il funerale fu annullato. Per sua fortuna il braccio uscito dalla barella era proprio dalla parte del religioso in preghiera.

Dopo un periodo di convalescenza riprese il suo viaggio verso sud attraverso lo Zambia (Northern Rhodesia) e lo Zimbabwe (Southern Rhodesia). Fu come una passeggiata nel parco, dato che di tanto in tanto erano anche disponibili mezzi di trasporto motorizzati. Attraversò il confine per entrare in Sud Africa e si diresse subito verso Johannesburg. A sua insaputa, il suo amico missionario di Mufulira aveva scritto alle autorità sudafricane, informandole della sua morte, per cui, al suo arrivo, erano già a conoscenza del suo lungo e difficile viaggio. La sua storia li aveva colpiti e commossi, al punto che gli diedero subito la residenza permanente.

La marcia era finita e la sua destinazione finale era in vista. Salì su un treno per Durban, dove ebbe il benvenuto dai molti suoi corregionali abruzzesi : Argentieri, Cocciante, Buccimazza, Morelli, eccetera. Erano quelli gli anni in cui si costruivano ferrovie e ponti in tutto il Natal (KwaZulu Natal) e fu ingaggiato come caposquadra da Olaff Grinaker. Non prese le malaria pur avendo attraversato l’Africa a piedi e trascorrendo gran parte della sua vita lavorativa nei cantieri all’aperto.

La sua avventura africana, cominciata nel settembre del 1930, si concluse nel 1932, un’odissea di 21 mesi. Mio padre era nato nel 1885 e morì nel dicembre del 1969. Aveva 84 anni.

Mario Borsei