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Storie di italiani

La lunga camminata del siciliano Giuseppe Maniscalco dall'Etiopia al Sud Africa durante la seconda guerra mondiale

La Gazzetta del Sud Africa

Martedì,23 gennaio 2007

 

Giuseppe Maniscalco nacque a Palermo il primo di ottobre del 1910, uno di otto figli di una grande famiglia. Alla morte improvvisa del padre, la madre non era più in grado di crescere da sola i bambini e decise di lasciare Palermo per andare a vivere vicino ai suoi parenti e amici a Trapani. Poi diede il consenso a che i bambini fossero divisi e dati in adozione ad altri familiari e amici.

Giuseppe decise allora che gli sarebbe piaciuto andare a vivere con lo zio Rizzuto Noncencio, il quale aveva un'azienda agricola vicino a Casablanca, in Marocco. Lo zio commerciava in muli e cavalli, portando stalloni delle aree di Abda e Chianda del Marocco per migliorare la qualità dei cavalli siciliani. Tutto andò bene finché un giorno Giuseppe ebbe un'esperienza traumatizzante causata dal caposquadra, signor Poleo, il quale stava tentando senza successo di convogliare alcuni animali verso un recinto. Irritato, ordinò a Giuseppe di piazzarsi davanti al cancello principale, agitando le braccia, mentre lui li radunava dal di dietro. Gli animali si imbizzarrirono e partirono di corsa in direzione di Giuseppe, il quale si spaventò e a sua volta si mise a scappare. Si nascose fra i cespugli e fu poi soccorso da due arabi su cammelli che lo portarono al loro villaggio. Stette con loro una settimana, senza capire nulla di quel che dicevano.

Visto che nessuno dell'azienda dello zio aveva cercato di ritrovarlo, decise di scappare di nuovo e si diresse verso l'azienda del signor Pietro Mazzara, un altro siciliano che faceva il coltivatore in Marocco da tanti anni. La famiglia lo adottò e presto Giuseppe cominciò ad andare a scuola, imparando anche l'arabo e il francese. Dopo la Prima Guerra Mondiale gli affari di Pietro Mazzara crebbero attraverso l'esportazione di pelli di selvaggina verso gli Stati Uniti. Nel 1929 la tragedia: Pietro Mazzara rimase ucciso in un incidente ferroviario negli Stati Uniti. La moglie dovette vendere l'azienda per tornare con la figlia e Giuseppe in Sicilia. Qui il giovane fece i suoi 18 mesi di servizio militare e sposò Anna Mazzara. Sei mesi dopo la nascita del figlio arrivò la chiamata alle armi del Governo italiano, che dopo un intenso addestramento militare lo spedì in Eritrea. Dovette lasciare la famiglia e fu questa l'ultima volta che vedette l'Italia nei successivi 33 anni. Il suo desiderio di tornare in Africa si realizzava, ma non come aveva immaginato.

La guerra in Eritrea ed Etiopia finì presto con l'arrivo delle truppe sudafricane e inglesi che liberarono la zona. Giuseppe fu internato con altri soldati italiani del Sudan a Decamerè, a circa 40 chilometri da Asmara. Un maggiore inglese li informò che, se avessero voluto restare nel paese, avrebbero avuto 14 giorni di tempo per cercarsi un lavoro, altrimenti sarebbero rimasti prigionieri di guerra dell'esercito britannico. Salito su un camion, andò ad Asmara, dove si mise freneticamente a cercare un lavoro, ma invano. Stanco e sfiduciato, entrò nel Caffè Rialto in Viale Mussolini, dove incontrò un vecchio amico siciliano, Carlo Giacaloni, che non vedeva da molti anni. Dopo essersi scambiati i rispettivi ricordi, finalmente si misero a parlare di affari. Carlo aveva un camion Fiat in buone condizioni e Giuseppe gli propose di farne uso per commerciare in bestiame vivo con l'Etiopia, dove il mercato era aperto a tutti.

I primi tre viaggi andarono bene e i due cominciavano a vedere dei profitti, ma il quarto viaggio fu fatale. Un sergente australiano li aveva avvertiti di non entrare in Etiopia senza una scorta militare, ma loro decisero di ignorare l'avvertimento e di andare di nuovo per conto loro. Vicino alla sommità di una montagna, furono improvvisamente presi a fucilate da un gruppo di banditi (shifta) e Carlo fu ucciso sul colpo. Giuseppe saltò giù dal camion e corse a cercare riparo. La stessa cosa fecero due passeggeri sul cassone, che non rivide mai più. Dopo essere rimasto nascosto per gran parte della giornata, ritornò al camion e trovò il corpo di Carlo. A fatica lo estrasse dal veicolo e lo seppellì. Recuperò la propria valigia e le 300 sterline di profitto che avevano accumulato e con il suo cappello coloniale e il coltellaccio da caccia come unica protezione decise di mettersi in cammino verso il Sudan.

Non aveva alcuna intenzione di tornare in Italia, a causa dei suoi sentimenti monarchici, e non aveva nessun desiderio di essere chiuso fra i reticolati di un campo di prigionia britannico. Onde continuare il viaggio doveva evitare di attraversare zone controllare dagli inglesi. Prima di arrivare in Sudan fu fatto prigioniero dal crudele capo indigeno Oman, il quale lo accusava di aver ucciso il cane di uno della sua tribù. In effetti Giuseppe era stato attaccato dal cane ed era stato costretto a difendersi. Fortunatamente riuscì a diventare amico del maestro di Oman, uomo più anziano e più saggio, il quale poi fece in modo di farlo evadere e gli diede una scorta per indicargli la direzione verso la quale doveva continuare il viaggio.


Sul Nilo Bianco fu inseguito da un rinoceronte. Gettò tutto quello che aveva e si mise a correre. Vista una grande roccia davanti a sé, corse in quella direzione e deviò all'ultimo istante. Il rinoceronte, miope e lanciato a tutta velocità, colpì la roccia e stramazzò intontito.

Nel Congo, dopo aver tentato senza fortuna di entrare in Angola, incontrò un amichevole belga che gli vendette un fucile e delle munizioni. Fino a quel momento Giuseppe aveva usato soltanto il coltello e una lancia per procurarsi il cibo cacciando e pescando. Qui fu anche informato che le forze alleate stavano occupando la Francia. Nel Congo, con il suo clima umido e tropicale, si prese la malaria e fu curato dalle tribù locali con erbe e medicine naturali. Nel Katanga fu quasi catturato perché un farmer, facendo finta di averlo preso in simpatia, ne denunciò la presenza alla polizia locale. Giuseppe, non fidandosi istintivamente del coltivatore, aveva deciso di riprendere il viaggio prima del suo ritorno e vide da una collina vicina il farmer arrivare con la polizia. Il suo istinto aveva avuto ragione.

Entrato in Zambia (allora Rhodesia del Nord), divenne amico di un farmer che si chiamava De Wet, il quale gli disse che quel territorio era una colonia britannica, per cui decise di continuare a camminare verso il Mozambico il più in fretta possibile. Attraversò lo Zambesi su una canoa scavata in un tronco d'albero governata da indigeni e si diresse verso Beira. Un impiegato delle ferrovie, Michel, gli consigliò di andare a vedere un certo signor Mattinoti, farmer italiano che aveva già dato lavoro ad altri tre ex soldati italiani, che incontrò al suo arrivo all'azienda. Fu sorpreso di venire a sapere che si era nel 1946 e che la guerra era finita.


I tentativi di Mattinoti di dargli lavoro sfortunatamente non ebbero successo perché le autorità portoghesi del Mozambico avevano ricevuto severe istruzioni dal loro governo di non consentire ad alcun prigioniero di guerra di restare nel territorio. Esse informarono Giuseppe che avrebbe dovuto presentarsi all'ufficio immigrazione entro qualche giorno, appena chiamato, per esserse imbarcato su una nave e rispedito in Italia. Nel frattempo poteva restare in libertà ma sorvegliato da un poliziotto. Mentre si trovavano in un negozio, il poliziotto si mise a conversare con una giovane portoghese e Giuseppe, visto arrivare un autobus, decise di tentare la sorte e vi salì. Riuscì poi a tornare alla casa di Michel, dove la moglie Maria gli trovò un buon nascondiglio nella loro azienda agricola. Quando tornò dal lavoro, con una luce malandrina negli occhi, Michel disse a lui e alla moglie che sarebbero andati a vedere un film in città. Disse a Giuseppe di rasarsi la barba e gli diede un cambio di abiti. All'arrivo al cinema videro che c'era anche il poliziotto che avrebbe dovuto sorvegliarlo e ad un certo punto Giuseppe se lo trovò anche alle spalle, in conversazione con i suoi amici. Ma non fu riconosciuto.

Qualche tempo dopo accadde l'inevitabile e Giuseppe fu fermato da un comandante di zona portoghese che lo fece prigioniero. Dietro assicurazione che avrebbe lasciato il Mozambico entro tre giorni, gli fu permesso di continuare il suo viaggio. Ricordando quanto gli aveva detto un farmista sudafricano nella zona di Beira, il signor Strydom, del quale era diventato amico, Giuseppe decise che il Sud Africa sarebbe stato una destinazione più sicura.


Seguendo la rotta degli africani che aspiravano a diventare minatori e che si dirigevano verso il campo di un procacciatore di operai in Zimbabwe (allora Rhodesia del Sud), arrivò anche lui al punto di transito, dove incontrò un amichevole scozzese, il signor McMaster, il quale era disposto a offrirgli un lavoro dopo aver ascoltato il racconto del suo incredibile viaggio. Ma Giuseppe ormai aveva deciso di andare in Sud Africa e rifiutò l'offerta.

Nel vederlo attraversare il fiume Limpopo con i neri in cerca di lavoro, il funzionario sul lato sudafricano nel confine si mostrò sorpreso di vedere un uomo bianco in mezzo a loro. Di nuovo Giuseppe, come aveva già fatto tante volte prima, raccontò al funzionario il suo incredibile viaggio. Il funzionario gli promise un salvacondotto e un mezzo di trasporto fino a Louis Trichardt (cittadina sudafricana). All'arrivo a Punda Maria, villaggio molto prima di Louis Trichardt, l'autista si fermò davanti alla stazione di polizia. Erano stati informati dell'arrivo di Giuseppe e subito lo arrestarono. Fu poi trasferito a Sibasa e successivamente, attraverso Louis Trichardt, via treno,a Pretoria, dove erano convinti che fosse un evaso dal campo di prigionia militare italiano di Zonderwater. Nessuno credette alla sua storia, nemmeno gli ultimi prigionieri di guerra italiani ancora a Zonderwater. Lo chiamavano “Il Matto”. Fortunatamente per lui, fu interrogato da un funzionario del dipartimento dell'immigrazione che si chiamava Johannes (Jack) Van Der Spuy, il quale aveva trascorso qualche tempo in Italia durante la seconda guerra mondiale nello spionaggio dell'aviazione e quindi parlava bene l'italiano.

Come lui stesso poi raccontò, Jack, nel vedere Giuseppe, si ricordò dei prigionieri ebrei nel campo di Buchenwald. Il viso era orribilmente incavato e il corpo era soltanto pelle e ossa. Gli abiti pendevano dagli ultimi fili. Giuseppe era alto 1,82 e aveva mani immense. Guardandogli le scarpe, Jack si accorse che ne restava soltanto la parte superiore e che i piedi sanguinavano. Lo sguardo denunciava una tensione tremenda e somigliava un po' a un animale selvatico in cerca di qualcuno che si prendesse cura di lui, che comprendesse la sua situazione e che soprattutto gli credesse.


Siccome Giuseppe non aveva alcun documento di identità, il consolato italiano informò Jack di non aver alcun interesse a lui. Jack invece si era appassionato al suo caso. Era meravigliato della precisione con cui Giuseppe poteva lanciare il coltello e la lancia. Quando il coltello colpiva il tronco di un albero, ci voleva un grande sforzo per estrarlo. Un esame medico aveva dimostrato che Giuseppe presentava sintomi comuni alle persone che avevano attraversato aree tropicali e avevano preso la malaria. Una volta completato il suo rapporto, Jack e Giuseppe furono convocati nell'ufficio del suo superiore, il signor J. Basson. Nel vedere Giuseppe e nel sentire la sua storia, quest'ultimo si meravigliò e tirò fuori dalla tasca una banconota da una sterlina che diede a Jack con istruzioni di dare a Giuseppe un pasto decente e un taglio di capelli. Giuseppe fu poi trasferito in una farm fuori Pretoria perché potesse ristabilirsi.

Il Control Board capeggiato dal Segretario all'immigrazione di Pretoria decise all'unanimità di consentire a Giuseppe di restare in Sud Africa. Arrivarono al punto di trovargli un lavoro nel reparto carpenteria della gigantesca acciaieria Iscor, a Pretoria.


Intanto Giuseppe aveva scritto alla moglie Anna, in Italia, la quale circa tre anni prima era stata informata dalla Croce Rossa Internazionale che lui era morto nell'incidente del camion in Etiopia. Si era quindi rifatta una nuova vita e non aveva alcuna intenzione di raggiungerlo in Sud Africa. Giuseppe stesso cominciò quindi una nuova vita, ebbe il divorzio da Anna e successivamente sposò Maria Anjos, una signora di origini portoghesi che aveva già un figlio da un precedente matrimonio e che Giuseppe crebbe come se fosse suo. Insieme ebbero altri tre figli, due femmine e un maschio.

Ci vollero 33 anni prima che Giuseppe potesse tornare in Italia, dove rivide suo figlio, che aveva tenuto fra le braccia per l'ultima volta quando era un neonato prima di andare in Eritrea a fare il servizio militare.

Nel 1968 Giuseppe pubblicò in Sud Africa un libro sulla sua avventura intitolato “Miles and Miles and Miles” (Miglia e miglia e miglia), che fu poi ripubblicato in Inghilterra con il titolo “The Long Walk” (La lunga camminata).


Il sogno di Giuseppe era di poter rifare il suo incredibile viaggio, ma a causa di dolori al torace che lo tormentarono negli anni successivi, questo non gli fu possibile. Morì a Pretoria il 28 gennaio 1974, quasi esattamente 32 anni fa, scomparso ma non dimenticato: l'unico uomo riuscito a sopravvivere a questo lungo e avventuroso viaggio attraverso l'Africa a piedi, affrontando un ambiente ostile e i pericoli rappresentati da uomini e animali e superando ogni altro ostacolo sul suo cammino.

 

un grazie di cuore a Vincenzo e al direttore della Gazzetta del Sud Africa

che mi ha permesso di pubblicare questo straordinario documento.

roby